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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 marzo 2016
 
di Lenny Abrahamson, con Brie Larson, Megan Park, William H. Macy, Joan Allen, Jacob Tremblay (Irlanda - Canada, 2015)
 
Un ragazzino di cinque anni, una mamma, la stanza che dà il titolo al film. Che si tratti di un luogo particolare è facile da intuire: quell'amore così esclusivo tra i due personaggi è costretto in pochi metri quadrati. Da un lucernario sul soffitto proviene quel poco di luce del giorno, mentre la sola esistenza del mondo esterno giunge dallo schermo di un piccolo televisore dalle immagini perturbate.

Un sequestro. Una donna con un figliolo di cinque anni, avuto da un individuo che intravediamo di sfuggita; imprigionati da sette anni, all'interno di un container in giardino, nascondiglio insonorizzato e blindato, incredibilmente ignorato da tutti. Celebri fatti di cronaca che fecero scalpore, come quello della ragazza austriaca Natascha Kampusch sequestrata per anni, e altri ancora.

Ma la sceneggiatrice e autrice del romanzo al quale ROOM s'ispira, Emma Donoghue irlandese come il regista Lenny Abrahamson, non ha (fortunatamente) inteso avventurarsi nell'orrore, né tanto meno nel thriller o inchiesta poliziesca. Ad interessare gli autori è l'universo nel quale è avvolto il dramma: dapprima uno spazio fisico, così esiguo e protratto nel tempo da non potersi che farsi sempre più spazio mentale. Poi, una volta superato lo sconcerto iniziale dello spettatore per la situazione, ecco imporsi progressivamente il rapporto quasi invadente fra madre e figlio. Infine, nella seconda parte della pellicola, un altro condizionamento, altrettanto drammatico: fra i due protagonisti e una realtà dimenticata o addirittura mai vissuta per il bimbo, l'impatto con gli intimi, con la società tutta che li attornia.

Il film si articola su quello snodo, che per il ragazzino significa passare da riferimenti che lui chiama Stanza, Mamma, Cucchiaio, Lavandino, Porta, a dimensioni solo in apparenza più appaganti, normali e umane: lo Spazio, il Mondo, il Cielo intravisto per la prima volta.

Regista formatosi nelle dimensioni confidenziali come quelle irlandesi, Lenny Abrahamson fruisce qui di una produzione internazionale più importante; e sembra adeguarsi ai nuovi mezzi, nei toni come nel modo di esprimerli. Evita gli eccessi, in una prima parte dov'è efficace nello svelarci le sensazioni claustrofobiche addolcite da evasioni favolistiche. Pur non situandoci fra i capolavori del genere: uno fra tutti, IL COLLEZIONISTA (1965) di William Wyler, con l'inquietante cultore di farfalle Terence Stamp e un'indimenticabile Samantha Eggar, indecisa se indulgere nella celebre sindrome di Stoccolma.

Ma è quando si addentra fra le (interessanti) difficoltà d'inserimento sociale della seconda parte (senza dirvi di più) che il film mostra certe crepe che solo affioravano dalla prima: non più tenuti a bada, dilagano allora lacrime e buoni sentimenti, mentre le indagini psicologiche e gli scoramenti dei comportamenti sociali finiscono per apparire scontati. Gli attori in casi del genere risultano da Oscar, come regolarmente è avvenuto per l'Interpretazione Femminile a mamma Brie Larson. Risaltano valorosi comprimari come Joan Allen o il grande William H. Macy dei fratelli Coen; ma colui al quale è facile predire un futuro da ragazzino ad uso e consumo hollywoodiano è il piccolo protagonista, Jacob Tremblay.


   Il film in Internet (Google)

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